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Nono centenario della Fondazione di Montevergine: il messaggio dell’abate Riccardo Guariglia

Pubblicato in data: 31/5/2023 alle ore:15:02 • Categoria: AttualitàStampa Articolo

Carissimi fedeli in Cristo,
poter festeggiare insieme il nono centenario della Fondazione di Montevergine è un dono immenso che non vorremmo sciupare. Siamo consapevoli, infatti, di quanta grazia di Dio sia transitata in questi nove secoli attraverso le pietre di questo Santuario, “casa di Maria” e insieme espressione del genio e della santità del suo fondatore, San Guglielmo da Vercelli. Chi potrebbe raccontare tutti i miracoli qui avvenuti? Chi potrebbe enumerare tutte le suppliche che da questa montagna benedetta sono salite a Dio attraverso la Madre sua e nostra? Chi potrebbe dare un volto ai milioni di pellegrini che qui hanno trovato consolazione e speranza? Sì, noi siamo davvero gli eredi di una splendida tradizione, l’ultimo anello di una catena che attraversa ininterrottamente la storia cristiana non solo della Campania, ma dell’intero Paese, e che qui conserva tracce meravigliose della sua bellezza e della sua fecondità, non ultimo grazie all’opera della comunità monastica benedettina, che di tanta grazia è stata ed è tuttora custode gelosa ed attenta, e al fascino potente della montagna e delle sue vertiginose altezze.

Insieme al ringraziamento per questo passato glorioso, noi vorremmo però anche cogliere l’impegno che da esso deriva per noi cristiani di oggi, per il nostro tempo, per la Chiesa che tutti, pastori e fedeli laici, siamo chiamati ad amare e a servire. Montevergine, infatti, come ogni Santuario mariano, non può essere soltanto un monumento del passato, un museo della tradizione. Montevergine è chiamata ad essere qualcosa di più e noi non vorremmo mancare a questa responsabilità dalla quale ci sentiamo interpellati.

Cosa deve essere allora un Santuario oggi?

Credo lo abbia magistralmente spiegato Papa Francesco nel suo “motu proprio”“Sanctuarium in Ecclesia”dell’11 Febbraio 2017, che  costituisce quasi un atto di “rifondazione” dei nostri Santuari. D’ora in poi, dice il Papa, il Santuario andrà pensato principalmente come un luogo ed uno strumento di evangelizzazione, meglio ancora come un luogo dove il Popolo di Dio si fa esso stesso soggetto di evangelizzazione e di attività missionaria attraverso le varie espressioni di quella che solitamente chiamiamo pietà popolare.

A quel che mi è dato di capire, infatti, è l’evangelizzazione il vero filo rosso che unifica l’intero magistero di Papa Francesco, la sua preoccupazione costante, la sfida più urgente che, a suo giudizio, questo nostro tempo lancia alla Chiesa. La “rifondazione” che il Papa richiede ai nostri Santuari è tutta qui: entrare, secondo il nostro specifico, nel nuovo e grande lavoro di evangelizzazione che vede coinvolta oggi la Chiesa, utilizzando le nostre “armi proprie”, ovvero la spinta missionaria ed evangelizzatrice che è insita nella pietà popolare. Parafrasando, potremmo dire che il Santuario, già chiamato dopo il Concilio[2] a diventare da semplice luogo di devozione a luogo di cura pastorale, soprattutto attraverso i sacramenti della penitenza e dell’Eucarestia, è chiamato oggi a farsi luogo di evangelizzazione, o meglio luogo dove il popolo di Dio evangelizza se stesso per mezzo della sua stessa devozione, quella che il Papa stesso non esita a definire “spiritualità” o addirittura “mistica” popolare.[3]

Mi sembra essere questo il senso del cammino che siamo chiamati a percorrere per l’avvenire: dalla devozione alla cura pastorale e da questa alla evangelizzazione. E il tutto, non nella dinamica della sostituzione di una cosa all’altra, bensì in quella della integrazione di una cosa con l’altra, il che significa che i nostri Santuari da oggi in poi saranno contemporaneamente luoghi di devozione, luoghi di cura pastorale, luoghi di evangelizzazione.

Devozione, cura pastorale, evangelizzazione non sono, però, cose da farsi da soli. Soggetto di ciascuna di queste azioni, infatti, è la Chiesa tutta, l’intero Popolo di Dio.

Per questa via il Santuario diventa anche un luogo dicomunione ed il pellegrinaggio ad esso – espressione tipica della pietà popolare – una vera e propria esperienza di sinodalità, perché anche qualora si salisse da soli a Montevergine,  ci si ritroverebbe comunque inseriti nel flusso di una tradizione che viene da molto lontano e abbraccia infinite generazioni.

Paradossalmente, il Santuario può costituire un luogo di incontro e di sinodalità più delle stesse Parrocchie. Al Santuario, infatti, approdano tutti, “vicini” e “lontani”, praticanti e non, ma comunque tutti fratelli e sorelle in umanità, perché tutti pellegrini verso lo stesso Regno.

Nel Santuari la differenza non è percepibile, “sfuma”, e questo può costituire addirittura un vantaggio, non solo perché offre molte possibilità di evangelizzazione dei cosiddetti “lontani”, ma anche perché in questa particolare “mescolanza” di praticanti e non praticanti, gente devota  e turisti, persone angosciate per una malattia, un lutto, un fallimento familiare o economico e semplici visitatori… percepiamo di essere l’unico Popolo di Dio in cammino verso il Regno, facciamo esperienza di quella che Papa Francesco chiama “la mistica della fraternità”, ovvero – sono parole sue – “la mistica di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio… Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene”,[1] e questo contro ogni tentazione di rinunciare alla dimensione sociale del Vangelo, di concepire anche le relazioni umane non più mediate da carne ed ossa ma da schermi e cellulari.

Il Santuario diventa così una bella metafora del cammino sinodale. Ritrovarsi insieme, camminare insieme, tutti verso il Regno, il luogo dell’incontro con Dio, il luogo della fraternità. Camminiamo con chi capita, compagni di viaggio di chi viene, non di chi abbiamo deciso noi, ma di chi è attirato dal Signore, di chi, nonostante tutto, ha conservato un certo “fiuto senza cittadinanza” delle cose di Dio, come direbbe Papa Francesco,[2] un fiuto che ci sorprende sempre e che ci impone di non disprezzare niente e nessuno, di non mettere paletti troppo rigidi di distinzione tra chi è dentro e chi è fuori, di non cedere alla tentazione di contarci e di serrare le fila, dal momento che lo Spirito soffia dove vuole.[3]

Montevergine, come ogni Santuario, è un luogo dello Spirito, della libertà, della grazia, perché è lo Spirito che agisce misteriosamente nel cuore di ogni uomo, infondendo in esso quella “nostalgia di Dio” che spinge tanti a visitare il nostro Santuario, con la convinzione che esso abbia ancora qualcosa da dire e da dare alla loro vita. Un tempo eccezionale, un luogo fortemente simbolico, dove ritrovare se stessi nella relazione con Dio o con la Chiesa dei santi, soprattutto Maria. Nel Santuario si sperano quei perdoni che in parrocchia ci si vergogna a chiedere al parroco; se si è malati, si spera nella guarigione… e anche quando questa non avviene, si ritorna a casa comunque  più sollevati, perché si è sperimentata la vicinanza di Dio e della Chiesa, perché si è percepita quella che Papa Francesco chiama “la rivoluzione della tenerezza”,[4]la spiritualità dell’incarnazione. La cosiddetta “pietà popolare”, infatti, raggiunge e coinvolge tutti e a tutti riconsegna il cuore della fede, in una forma semplice, non intellettuale ma affettiva, fatta di gesti più che di parole, che privilegia il canale del corpo più che quello della fredda ragione teologica, perché la pietà popolare è proprio questo: una modalità incarnata e relazionale di vivere la fede.

Una modalità incarnata e relazionale di vivere la fede è, più a fondo, una modalità “materna”, una modalità mariana. Cosa c’è, infatti, di più incarnato e relazionale di una madre? Dove, più che nel seno di una madre, abbiamo fatto esperienza della carnalità di noi stessi e delle nostre relazioni?

Offrendoci i tesori della propria “pietà popolare”, Montevergine ci offre così la possibilità di fare esperienza della dimensione materna e quindi mariana della vita cristiana, fatta di carne e relazioni più che di parole e di convegni. E sarà nella carne, nelle relazioni, che unicamente comprenderemo cosa vogliano dire “sinodalità”, fraternità, gioia di stare e di camminare insieme, e dunque la Chiesa stessa.

Sarà questo anche un potente antidoto alla sfiducia che connota la nostra epoca e alla tentazione di rifluire nel privato, nel virtuale, con cui tutti dobbiamo fare oggi i conti.

Ogni pellegrino, infatti, è un “pellegrino di speranza” (il tema del prossimo Giubileo), ovvero un uomo, una donna, un giovane che sono alla ricerca di qualcosa la cui definizione sfugge a loro stessi, alla ricerca di un di più, di un magis di senso, in un mondo che ci appare assurdo; di un magis di luce, in un mondo che sembra solo tenebroso; di un magis di speranza, in un mondo che non sa guardare più niente e nessuno con fiducia; di un magis di fraternità, in un mondo drammaticamente lacerato da discordie e divisioni.

In comunione con tutta la Chiesa, confortati dal dono dell’indulgenza di cui godremo in questo anno centenario, guardando a Maria, stella dell’evangelizzazione e insieme conforto dei miseri, mettiamoci allora in viaggio insieme. Verso Montevergine, certo, dove Maria ci accoglierà come Madre premurosa,[5] ma prima e più ancora verso il Regno di Dio: è lì, infatti, che il Padre ci attende, perché insieme possiamo sperimentare la gioia senza fine di essere in comunione con Lui, con il suo Figlio Gesù e con lo Spirito Santo Amore, ai quali siano lode e gloria nei secoli dei secoli. Amen.

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